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martiri viterbesi

Manlio Gelsomini

il mio nome da partigiano è Ruggero Fiamma, ma son conosciuto ai più con il nome da civile: Manlio Gelsomini. La mia aspirazione è stata sempre quella di aiutare il prossimo . Per questo ho studiato medicina ho aperto uno studio a Roma assistendo anche chi non poteva permettersi le cure durante la guerra. Ho sempre fatto il mio dovere per la patria e per la società, anche quando il fascismo sembrava ormai al tramonto sono stato chiamato alle armi. Non mi sono nascosto e ho ricoperto anche il ruolo di ufficiale e forse grazie a questo ruolo ho visto i dolorosi effetti della guerra e dell’occupazione. Al crollo del fascismo non ho voltato le spalle a chi soffriva per l’occupazione tedesca ma mi son messo al servizio della Resistenza fin da subito partecipando ai combattimenti di Porta San Paolo. Ho ricoperto vari incarichi dalla cura ai feriti all'organizzazione delle bande partigiane nell’Alto Lazio nella zona del Soratte. La mia attività di partigiano si è concentrata per lo più nella zona di Civita Castellana. Ho conosciuto personaggi come Mariano Buratti, Cordero di Montezemolo, Don Domenico Antoniazzi con i quali ho condiviso ideali e passioni. Ho conosciuto anche le bassezze umane, infatti son stato tradito da un autista che per una manciata di denaro mi ha venduto alla Gestapo. Hanno approfittato della mia buona fede attirandomi in una trappola. Mi han detto ci fosse bisogno di un aiuto per un partigiano ferito e invece ho trovato la Gestapo. Son finito a Via Tasso e per 60 giorni ho subito torture privazioni di ogni tipo. Non è bastato a farmi parlare, sapevo che cosa fosse quel posto ne eravamo tutti consapevoli noi partigiani. Hanno provato tutti i mezzi per indurmi a tradire anche il più perfido come la tortura psicologica. Hanno arrestato mia madre e l’hanno condannata a morte, fortunatamente mai eseguita, ma lo strazio per la persona a me cara non è bastato a farmi crollare. Ora riposo nel sarcofago 34 e se un giorno verrai alle Fosse Ardeatine potrai portarmi un fiore e ricorda che per la libertà di un popolo ogni sacrificio è importante.

Unico Guidoni

Mi chiamo Unico Guidoni. Facevo parte del Movimento comunista d’Italia Bandiera Rossa, tra cui militavano anche i figli dell’On.Matteotti vittima dei fascisti nel 1924. Eravamo presenti e numerosi nelle campagne del Lazio a Genzano, Rieti fino ad arrivare a Tarquinia e Viterbo. Prima che i tedeschi occupassero Roma avevamo costituito una cellula clandestina della Resistenza. Ci riunivamo nelle grotte di epoca romana sotto Santa Maria Maggiore, creando il centro politico di Grottarossa. Grottarossa era divenuto un rifugio per soldati sfuggiti alle deportazioni, serviva per l’organizzazione di gruppi partigiani, era un luogo dove stampare clandestinamente. Ascoltare Radio Londra e dove trovare una minestra calda e un giaciglio per riposare. A me piaceva insegnare in quel piccolo mondo di speranza che rappresentava il centro, ma ero anche pronto all’azione. Purtroppo l’invidia e la miseria in guerra sono all’ordine del giorno, un delatore ci vendette e io finii a Via Tasso. Pensai che fossi stato fortunato quando mi condannarono a soli 2 anni di reclusione, il fatto che fossi giovane robusto mi faceva pensare che sarei stato portato nei campi di concentramento. Il destino invece mi portò alle fosse ardeatine, ero fra i condannati politici ora riposo nel sacello 113.

Epimenio Liberi

Al sacello 297 ci sta scritto il mio nome Epimenio Liberi. Appartenevo alle formazioni partigiane del Monte Soratte e fui denunciato finendo a Via Tasso e qui torturato. Trasferito a Regina Celi vi incontrai Don Giuseppe Morosini. Anche in prigione e nella desolazione possono nascere amicizie profonde come quella fra me e Don Peppino. Don Morosini quando saputo che aspettavo un figlio, che non vedrò mai, gli dedicò una ninna nanna. C’è un castello di fate in riva al mare C’è un castello di re sopra la terra C’è una bionda regina fra le ancelle C’è una dolce madonna fra le stelle Il castello del re è la tua culla E la bionda regina è la tua mamma Che con le fate ti ripete in coro La più amorosa e dolce ninna nanna Se un giorno andrai a Via Tasso la vedrai fra i tanti cimeli, insieme vi troverai un foglio testimone a voi di un'amicizia nata nelle ore più buie.

Enrico Mancini

Il mio nome è Enrico Mancini e sono nato a Ronciglione il 12 ottobre 1896. Dopo la mia nascita ci trasferimmo a Roma, dove frequentai le scuole elementari, per poi venir assunto come apprendista in una bottega di falegnameria. Sono partito per la prima guerra per 3 anni venendo poi congedato da caporale. Tornai a Roma e sposai mia moglie Argia, in seguito madre dei miei 6 figli. Grazie all’abilità da falegname apri la mia bottega in Via dei Conciatori sempre qui a Roma. Non ho mai accettato il regime. venni preso di mira da alcune squadriglie e per questa mia ideologia pagai la mia misera bottega, bruciata da squadre fasciste. Provai a riavviare una mia attività, con una trattoria in via della scrofa. Aiutai molti perseguitati, a discapito del lavoro e in poco tempo fui costretto a chiudere. Venni Sfrattato ed andammo a vivere in un casermone creato dai fascisti alla Garbatella. Io e mia moglie diventammo noti per gli aiuti prestati; io davo una mano con il cibo mentre lei insegnava a leggere e scrivere ai bambini. Nel ‘42 mi iscrissi al Partito D’Azione con un gruppo di patrioti Antifascisti, ed in seguito all’8 Settembre 43 il mio operato si intensificò. In famiglia eravamo numerosi, ma diedi comunque aiuti economici a prigionieri politici, famiglie degli arrestati, partigiani e militari allo sbando. Fui fondamentale per la distribuzione di armi e propagandaTra i partigiani assunsi il ruolo di tenente, poiché ricoprii incarichi di responsabilità tra i quartirei di Garbatella, Ostiense e Testaccio. Ci fu una spiata e venni arrestato dalla banda Koch. Elettra, mia figlia, assisti a tutta la scena in una bottega lì di fronte. Povera figlia mia. Mi portarono prima alla pensione Oltremare, lì venni torturato, per poi essere trasferito a Regina Coeli. A Regina celi sono riuscito a vedere Argia, ma il 24 marzo quando tornò non le spiegarono il motivo per cui ero stato portato via dal questore fascista Caruso insieme ad altri 50 Venni ucciso quella notte. Sono morto crudelmente, ma il mio sacrificio non è stato vano.

Angelo Martella

Sono Angelo Martella ma per due anni dopo l’eccidio sono stato uno sconosciuto fra i tanti corpi riesumati è sono stato riconosciuto nel 1947 Sono nato il 10 ottobre 1908, a Capranica. Nei registri civili non ci sta molto di me ne chi siano i miei genitori ne che lavoro svolgessi Dove sono nato nessuno mi ricorda, ma alle fosse ardeatine puoi sapere molto di me Saprai per certo che sono sono stato prelevato fra prigionieri dell’AUSSEN KOMMANDO ovvero la polizia tedesca, sicuramente perchè svolgevo attività antinazista. Scoprirai inoltre che in quella terribile alba Sono stato uno tra i primi assassinati e la mia salma è stata ricomposta nel sarcofago n.322.

Armando Ottaviano

Alle 3 di notte mi hanno prelevato a casa mia in via Albalonga 21, cercavano mio padre ma hanno trovato me Armando Ottaviano. A testimonianza vi è una lapide per chi vi passasse davanti basta alzare lo sguardo. Anche io ero partigiano e credevo negli ideali di libertà e giustizia di cui al liceo mi ero nutrito. Successivamente, mi iscrissi alla Facoltà di Lettere e Filosofia, laureandomi a pieni voti. La mia tesi di laurea è attualmente esposta nel Museo Storico della Liberazione di via Tasso a Roma, dove prima di affrontare il martirio, fui imprigionato nella cella n.1 del secondo piano. È stato durante gli anni universitari che ho sviluppato il mio antifascismo militante, principalmente attraverso la cronaca giornaliera delle nefandezze del regime. Nel dicembre del 1943, il Comitato di Liberazione Nazionale di Roma mi assegnò compiti di collegamento nell'Alto Lazio, cercando di realizzare l'unità d'azione tra la formazione "Giacomo Matteotti" con base a Tuscania e la banda "Valenti" a Tarquinia. Partecipai a tutte le imprese della formazione "Matteotti" e svolsi un'intensa attività di educazione politica tra i giovani partigiani che incontravo, contrastando l'opera anticulturale del regime durata vent'anni. Trovandomi un giorno, con un gruppo di armati, in posizione di colpire un milite della Guardia Nazionale Repubblicana, preferii scendere dall'altezza ed andargli a parlare con l'intento di dissuaderlo dalla collaborazione con i tedeschi. Il 15 marzo 1944, partii dal "rifugio" della banda "Matteotti" presso il castello della Rocca di Tuscania per recarmi a Roma, fornire informazioni, ricevere istruzioni e raccogliere materiale di propaganda. Salutai i compagni e mi diressi verso la capitale.Non sapevo che sarebbe stato per sempre. Dopo l’arresto fui condotto inizialmente a via Tasso, dove subii torture per costringermi a rivelare il nascondiglio di mio padre. Successivamente fui trasferito a Regina Coeli, sotto la giurisdizione della Questura di Roma. Il 24 marzo, fui incluso nella lista delle cinquanta vittime compilata dal Questore Caruso, ubbidiente all'ordine di Kappler. In quell'elenco di Martiri, il prof. Ottaviano figurava al 35° posto. La mia tomba porta il numero 165.

Tito Bernardini

Mi chiamo Tito Bernardini e s ono nato ad Orte, nella casa situata in piazza del Mercato, il 24 aprile del 1898. Mio padre, Giovanni, era un ferroviere con la qualifica di "deviatore", mentre mia madre, Argentina Bassetta, aveva dato alla luce tre figli, essendo io il più giovane. Alla denuncia della mia nascita dinanzi all'Ufficiale dello Stato Civile, Successivamente, la mia famiglia si trasferì da Orte a Viterbo, e da lì, mi spostai da solo a Roma nel 1940, stabilendomi in Via Gioberti, non lontano dal luogo che sarebbe diventato il Centro Operativo clandestino "Grottarossa" del Movimento Comunista d'Italia, dove operò durante la Resistenza un altro Martire delle Ardeatine: Unico Guidoni. Fui licenziato dalle Ferrovie dello Stato nel 1923 a causa dei miei atteggiamenti antifascisti. Da allora, ho svolto vari mestieri per sopravvivere. Durante l'occupazione tedesca in Italia, quando la mia azienda fu requisita e lavorai per il nemico come magazziniere, mi licenziai pur di non collaborare con loro. Sono tra coloro che figurano nell'elenco dei fucilati compilato da Kappler, accusato di "propaganda comunista". Prima di essere trasferito a Regina Coeli, subii brutali torture a via Tasso, dove resistetti con il silenzio nonostante mi abbiano spezzatomia spina dorsale e mi abbiano cavato gli occhi. Il mio corpo martoriato ora riposa nel sarcofago 121. Io e mio fratello Valentino, Abbiamo operato insieme in azioni di resistenza, dalla preparazione di ordigni esplosivi alla distribuzione di volantini antinazisti e attacchi contro fascisti, tedeschi e collaboratori della polizia. Il 16, 17 e 18 settembre dell’anno precedente, partecipammo a tre attacchi all'ambasciata tedesca, dove furono lanciate bombe e sparatorie durarono ore intere. Il mio arresto avvenne in un laboratorio di marmista nei pressi di piazza del Popolo, dove il nostro gruppo aveva approntato un deposito di armi. L'arresto, dovuto a una spiata, venne operato la mattina del 7 marzo dalle SS tedesche coordinate dalla banda Bernasconi al servizio dell'OVRA. Fui rinchiuso nella stessa cella insieme al mio fratello. ero ridotto in uno stato pietoso e mio fratello, impotente ad aiutarmi, non poteva né comunicare con me, né farmi vedere o conoscere; anzi, per tacita intesa, noi due dovevamo fingere e ignorar completamente la rispettiva attività politica. È facile immaginare il dolore sofferto da Valentino nell'udire i tremendi colpi inferti contro il mio corpo, nonché i miei lamenti, che provenivano dalla cella posta esattamente al piano superiore alla sua, e l'angoscia esasperante di non potergli prestare minimamente alcun aiuto.

Aldo Chiricozzi

Mi chiamo Aldo Francesco Chiricozzi, sono nato a Civitavecchia il 12 settembre 1925, ma la mia famiglia è originaria di Vignanello da cui si sono trasferiti per il commercio del vino. . La mia breve vita di soli 19 anni è stata tragicamente segnata dagli eventi della Seconda Guerra Mondiale e dalla lotta contro il regime fascista. Il destino mi ha legato a quello di mio cugino da parte di madre, Angelo Fochetti. Il nostro arresto avvenne il 21 febbraio 1944 all'uscita dell'Albergo Littorio, situato in via Clementina a Roma, poichè avevamo volantini clandestini con noi, l’accusa mossaci è che collaboravamo con i partigiani Impiegato delle Poste a Roma e pendolare, spesso incontravo il mio cugino Angelo Fochetti. La nostra storia si è intrecciata con gli ideali della Resistenza, la cui memoria ora persiste oltre la nostra giovane età. In quell’inferno di via Tasso l’unica luce di speranza si accendeva quando le donne della mia famiglia portavano ogni giorno generi di conforto al carcere Il mio corpo riposa nel sarcofago n. 48, nella speranza che rimanga una testimonianza silenziosa di un periodo oscuro che spero non si ripeta mai più.

Giorgio Conti

Le notizie che si sanno su di me sono ben poche, oltre alle generalità contenute nel libro "La Geografia del dolore". Posso definirmi uno dei protagonisti più silenziosi della riscossa nazionale contro il nazi-fascismo , si sa solamente che sono nato a Roma il 17 maggio 1902, figlio di Cesare e di Ricci Quarti Cristina, nella mia vita sono stato un’ ingegnere di origine cattolica, e nel gennaio del 1944 sono stato arrestato con l’accusa di aver fatto parte del Comitato di liberazione nazionale, per poi essere fucilato la mattina del 24 marzo. Ultimamente però, L'ANPI viterbese ha deciso di approfondire le ricerche anche su di me. I miei resti in questo momento sono conservati dentro il Sacrario delle Ardeatine.

Renato Fabri

Mi chiamo Renato Fabri e sono nato a Vetralla il 25 dicembre 1888, figlio del conte Luigi e di Cesira Mirenghi-Eugeni; provenivano da Fabriano. La mia famiglia si trasferì a Vetralla quando nacqui perché mio padre esercitava la professione di veterinario. Ma a causa di varie difficoltà incontrate nel suo lavoro, dopo alcuni anni, dopo aver combattuto la prima guerra mondiale ho ripreso il mio lavoro alle poste a Roma. Nel 1920, non volevo fare la vita sedentaria dell’impiego pubblico e ho preferito abbandonare l’ufficio per trasferirmi in Francia e intraprendere il commercio di pietre preziose. Ero un convinto anti-fascista e per questo mi sono unito al Movimento di “Giustizia e Libertà” fondato dai fratelli Rosselli, diventato Partito d’Azione. Nel 1939, prevedendo la rottura tra la Francia e l'Italia e conservando la cittadinanza italiana, ho scelto il rimpatrio anziché l'internamento, come molti altri antifascisti, per contribuire alla lotta contro il governo fascista e il re sabaudo. Dopo l'8 settembre del 1943, mi sono impegnato nella Resistenza . Mi sono stati affidati incarichi rischiosi come il reperimento il trasporti l’occultamento e la distribuzione di armi ed esplosivi.Il 2 marzo del 1944, a causa di una spia fascista, sono stato arrestato e portato a Regina Coeli su richiesta della Questura, tra i detenuti per motivi politici. Il Questore Caruso mi ha incluso nell'elenco dei cinquanta da uccidere alle Fosse Ardeatine, come richiesto da Kappler. Nel sacrario delle Fosse Ardeatine sono il numero 172

Angelo Fochetti

Mi chiamo Angelo Fochetti e sono nato a Vignanello il 2 dicembre 1915. Quando ero bambino,ho perso un occhio ferendomi con un ferro da calza, e sono rimasto orfano quando avevo solo 3 anni durante la prima guerra mondiale. Mi sono diplomato con ottimi voti e ho lavorato presso la sede centrale del Banco di Santo Spirito a Roma. Ogni mattina,partivo da Vignanello per recarmi a Roma con il treno. Durante la resistenza ,dopo l’otto settembre del 1943,ho operato nella zona Viterbo sui monti cimini con l’organizzazione militare i “volontari della Libertà". Mi dedicavo principalmente alla distribuzione di materiale di propaganda e collaborando con le formazioni di “Bandiera Rossa”. ,Insieme a mio cugino Aldo Francesco Chiricozzi,siamo stati trasferiti nella prigione di Via Tasso a disposizione della polizia nazista. Non ci sono stati nè interrogatori e nè processi prima di essere portato alle Fosse Ardeatine .La mia attività resistenziale è stata riconosciuta con la dedicazione di una strada a Roma,precisamente vicino a piazza dei Navigatori.

Angelo Galafati

332 è il numero del mio sarcofago. Vicino al mio nome, Angelo Galafati, è riportato questo numero e, il fatto che sia così alto, sta ad indicare che sono stato tra i primi cinque a morire in quelle fosse. Anch’io ero detenuto a Regina Coeli e sono stato compreso nell’elenco di Kappler. Sono del 1897, e sono nato a Civitella d’Agliano. Ho partecipato alla Grande Guerra, anche se avevo solo 18 anni, vi ho preso parte con onore. Ricordo in particolare un giorno, eravamo in difficoltà, il nemico ci aveva semi accerchiati e io ero gravemente ustionato. Nonostante questo non potevo permettere che avanzassero. Ho mantenuto la posizione per cinque ore, bombardando. Mi guadagnai la Medaglia d’Argento al Valor Militare. Tornato dalla guerra sentivo un sentimento socialista in me, quel sentimento che era cresciuto tra le trincee con i miei compagni. Mi rifiutai quindi di aderire al regime fascista. Questo però mi fece odiare da parte dei miei compaesani agrari che, oltre a negarmi il lavoro, mi fecero pestare da scagnozzi. Per essere rimasto fedele alle mie idee, non potevo più sfamare i miei otto figli. Fui quindi costretto nel 1923 ad andarmene a Roma dove lavorai come pontarolo. Presi parte al movimento “Bandiera Rossa” per condurre la lotta contro i tedeschi e fascisti. Nonostante la responsabilità che avevo riguardo la mia famiglia, avevo trasformato la mia casa in nascondiglio e centrale di smistamento di prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento, ai quali dovevamo garantire il raggiungimento degli eserciti alleati al di là del fronte. Per arrestarmi sfruttarono proprio questa mia generosità! Si spostò addirittura il famoso tenente Koch che, spacciandosi per inglese fuggito dal campo di concentramento, mi fece catturare il 13 marzo. Insieme a me furono arrestati altri compagni che ospitavo in casa mia: due sovietici, altri due russi, uno francese e uno belga. Venni rinchiuso a Regina Coeli nella cella n.256. Kappler mi incluse nel suo maledetto elenco di coloro da assassinare nella Fosse Ardeatine. A Civitella d’Agliano il monumento eretto per me recita “Operaio, comunista, antifascista, partigiano combattente per la liberà. ” - per la libertà - “Su denuncia di una spia venne arrestato. Nascondeva in casa ed assisteva sei militari alleati evasi dal campo di concentramento. I nazisti lo assassinarono nelle Fosse Ardeatine”. Sono fiero della mia vita, martire per la libertà.

Teresa Mussoni

[A Valle Aurelia] erano come un paese, si conoscevano tutti, stavano aggruppati, non so come spiegare...C’erano dei vari gruppi di case che era proprio come un paese, se entravi lì c’era la gente che lavorava di fuori. Un po’ più in là, quando ero già ragazzetta, c’erano delle bande e noi al numero undici non ci potevamo andare perché erano tutti delinquenti e i nostri genitori ci dicevano “quando passate lì per carità non date retta a nessuno...”. Ancora c’è, c’è ancora tutto, però è rimasto abbandonato. Erano tutte casette di delinquenti, delinquenti buoni, perché erano amici, amici proprio per la pelle; rubavano una gallinella, oppure tiravano i sassi, erano cattivi, per esempio quando passavamo ci tiravano i sassi, noi ci lamentavamo, “mamma, mamma, ci tirano i sassi” e le donne andavano un po’ a sbraitare... così era. Le donne lavoravano, lavavano per i signori, oppure più in là lavoravano per i militari, per i carabinieri: facevano pantaloni, uniformi. Lavoravano così a domicilio oppure avevano un piccolo banco al mercato e avevano un pezzo di terra, facevano tutto del proprio e andavano a venderlo. Non era come è oggi; erano proprio poveri quelli, lavoravano la terra “e andavano con un carrettino col cavallo giù al mercato a venderla a Trionfale.” “Poi le osterie, era pieno di osterie. Qualcuno picchiava le donne, se sapeva quell’uomo che picchiava la donna o che era un po’ cattivo, diciamo coi figli... Tante volte era anche un po’ la povertà, i tanti figli... eravamo tanti, de bambini ce n’erano abbastanza, ecco. Per esempio c’era chi metteva le corna al marito e quindi l’11 novembre si andava in giro con una testa di creta che ci mettevamo due corna, ci infilavamo la scopa e si andava da questa che sapevamo che ciaveva l’amico e si cominciava a battere i tamburi, le pentole e a dire e cantare dei ritornelli, così. Cose così, e anche se c’era una famiglia che erano un po’ mascalzoni si stava sempre uniti. Mio padre era fornaciaio, era come un guardiano; avevamo la casa lì, avevamo le galline. Da parte mia credo di avere vissuto l’adolescenza bellissima. Avevo un papà che – questo forse l’ho capito dopo – che era il migliore di tutti, perché lì gli uomini andavano all’osteria, bevevano, diventavano un po’ cattivi, forse era anche la fatica che facevano, perché allora c’erano quelli che si chiamavano cariolanti, che portavano con la carriola i mattoni, poi c’era il fuoco dove “si infornavano i mattoni e bisognava andare lì la mattina alle due, lavorare di notte, con il calore... diventavano un po’ cattivi, si indurivano. Invece mio papà no, io mi ricordo che noi eravamo cinque figli, tre maschi e due femmine, e mio papà era uno che cantava sempre, quando ritornava” “dal lavoro non è che siccome era stanco picchiava, no, era sempre un uomo allegro. Perché all’epoca la figura del padre non era come adesso, c’era da avere paura. Era mamma che invece era sempre seria, infatti io quando ero piccola la chiamavo la leonessa perché aveva un ciuffone grosso e quando era in cucina non rideva mai, era sempre seria. Faticava, è vero, tanto. Papà è stato sempre contrario a questo regime fascista, e noi siamo cresciuti così. Mi ricordo che in tempo di guerra quando ci mancava il pane dovevamo tenere un calendario col [ritratto] del duce e papà tante volte je tirava le cose e strillava ma porco qui, porco là, ma è mai possibile... Io, ecco, io lo dico, ero innamorata invece delle piccole italiane, perché portavano la gonna a pieghe che ce la passavano, la camicia bianca, il cappellino in testa, le scarpe... e io volevo vestirmi così perché non capivo, cioè capivo, però mi piaceva e dicevo: io voglio essere piccola italiana, e mio padre non lo voleva sentire, niente.” “Insomma io mi ricordo che eravamo una famiglia molto allegra, ci riunivamo tutti in cucina con i miei fratelli, papà faceva finta che suonava, mio fratello cantava, aveva una bella voce, poi quando è diventato più grande era come Oscar Carboni, se lo ricorda? E infatti avrebbe avuto una bella entrata nel mondo della canzone se la moglie, la fidanzata allora, non era tanto gelosa. Mio “fratello ha cantato anche due volte al Brancaccio per i soldati feriti che rientravano. La canzone preferita da papà mio, che ancora cantiamo tutti, anche i nipoti, era Reginella... mi ricordo che andava verso mamma, la voleva abbraccica’, che lui si credeva chissà come cantava, no? E mamma era sempre scorbutica, si scansava, diceva “eh tu, io ciò tanto da fa’, tu basta che canti...”. Oppure si cantava Abat-jour, La signora di trent’anni fa, Capinera, e anche quella del notaio, Signorinella. Noi la radio ce l’avevamo: io avevo due fratelli grandi, poi mamma mia lavorava, insomma, queste cose ce le potevamo un po’ permettere. Mamma mia ciaveva i padroni della fornace da cui andava a lavare, a pulire. Mi ricordo un’altra paura che ciò avuto è stata quando facevano il film Noi vivi - Addio Kira, ma lì ero già ragazzetta.58 Avevamo fatto tanto in tre o quattro amiche per andare a vedere questo film, perché era bello, ci piaceva, e i nostri genitori ci avevano accordato di andare a vedere questo film. Però siamo andate giù in tre e sa come era una volta, il film finiva e ricominciava, finiva e ricominciava e noi non ci rendevamo “conto, erano le otto e ancora stavamo là dentro... bello, piangevamo... Quando siamo rivenute a casa, abitavamo io qui e queste altre due amiche di fronte, loro le sentivo strillare per le botte che ci presero e a me mio padre me disse be’, te pare questa l’ora? Pure i miei fratelli, insomma, mi hanno sgridato, mi hanno detto che non lo dovevo fare più... Avevo più paura dei fratelli, perché i fratelli comandavano sulla sorella, no? E infatti, di questo fatto delle Fosse Ardeatine è stato mio fratello che ha preso l’impegno mio verso questo ragazzetto. Quindi insomma le ho fatto un po’ la prospettiva di com’era Valle Aurelia. Poi dopo quando ero più ragazza che è cominciata a venire la guerra è diventata un po’ più dura perché cominciavano ad andare via i ragazzi richiamati alle armi, poi c’è stata proprio la guerra. Valle Aurelia non fu bombardata, però prima delle Fosse Ardeatine e dell’entrata degli americani ha vissuto proprio un periodo partigiano. Quando è caduto il fascio hanno messo non so per quale motivo dei militari nelle fornaci, quindi ci siamo trovati che avevamo i soldati dentro casa. Quando è stato l’8 settembre che praticamente l’esercito italiano è andato allo sfascio, questi militari scappavano, e allora chi gli dava un vestito, una cosa per scappare; scappando hanno abbandonato tutto, pure le armi. E allora le mamme prendevano le coperte, le pentole e invece i ragazzi “si buttavano alle armi. Poi che le sotterravano per tirarle fuori quando veniva il momento. “Tra questi ragazzi anche mio fratello si era invischiato, sennonché mio papà cominciò a vedere che facevano queste riunioni sotto le fornaci come i carbonari una volta, e allora ci disse è meglio che ve ne andate tutti. [Mio padre era di San Marino]; San Marino mandò un proclama che ospitava lì tutti quelli che volevano, che ci passava la pensione, da mangiare, tutto, e allora papà andò dal console di San Marino e disse io mando via tutti perché qui non possono più stare. Questa mia storia con questo ragazzo, Alberto Cozzi, è stata una storia così... Ciavevo mi sembra 15 anni; era una storia che ci piacevamo, si andava in chiesa più che altro, c’erano i gruppetti dell’Azione cattolica, a me mi piace quello, a me mi piace quell’altro, e insomma ciavevamo queste storielle da ragazzini. Quando io dovetti partire... mi ricordo vagamente che c’eravamo seduti, “io devo andare via, ma tanto ritorno”, queste cose da ragazzini, e c’eravamo promessi che ci vedevamo un’altra volta. Dopo lui parlò con mio fratello e mio fratello gli disse: “Questo non è il momento di fare una storia, mia sorella deve partire, noi dobbiamo restare qui”. E quindi ci siamo “detti “quando finisce tutto ci vediamo, quando sarà ne riparliamo, per adesso rimaniamo così”. Poi allora... una volta si ubbidiva. Così io e mamma partimmo con gli altri fratelli e loro “rimasero qui. C’eravamo dati le fotografie, “io t’aspetto”, così... Poi successe che questo ragazzo s’era messo con i partigiani, come c’erano dappertutto. Ciaveva più o meno 18 o 19 anni, era uno che voleva fare, come tanti altri. C’era poi questo amico loro che abitava in zona e di cui si conosceva bene la famiglia (non dico il nome perché non mi va, perché è uscito [di prigione] e sta bene, quindi non lo voglio nemmeno nominare) che stava con loro e che poi invece andava a riferire al comando... Si organizzarono per fare un atto, un volantino; quando è arrivato dove doveva portare il messaggio, invece dell’amico c’erano i tedeschi e l’hanno arrestato. Poi fu processato e mi hanno raccontato che se la prendeva quasi a ridere perché gli americani oramai erano vicino Roma. Gli dettero non mi ricordo quanti anni, mi pare tre anni, ma lui si fece una risata perché disse “Ma io fra poco esco, qui ce stanno gli americani qui vicino...”. E invece purtroppo gli americani hanno tardato, questo qui [Bentivegna] ha fatto quel lavoro bello di mettere questa bomba ai trentatré tedeschi, hanno fatto una selezione a Regina Coeli e c’è andato di “mezzo lui, questa è stata la storia di questo ragazzo. Poi quando sono arrivata a Roma ho saputo di questa storia. E allora con la mamma di questo ragazzo ho detto: “Vorrei venire a vedere cosa c’è”. Siamo andate in “questa grotta e ancora c’erano delle cose, per carità, vedevo ancora dei capelli attaccati... mi ha fatto male. Poi mi hanno ridato la mia fotografia. Ce l’aveva in cella e l’aveva data a un sacerdote che ha dato poi tutti gli effetti alla mamma – e una lettera che avevo scritto da fuori e che non era arrivata. Da lì poi abbiamo saputo di altri ragazzi, amici di mio fratello, che conoscevamo in borgata, uno che abitava qui dove c’era questa fornace e un altro al famoso numero undici, che sono stati fucilati. Uno si chiamava Paroli e l’altro Casadei. Questa quindi è la mia storia personale.”

Alberto Cozzi

Sono nato a Roma ma le radici della mia famiglia si estendono fino a Castel Cellesi, una piccola frazione di Bagnoregio. La mia storia è segnata dalla lotta partigiana e dal coraggio che ho dimostrato durante la Resistenza. Fin da giovane, ho manifestato una forte fede patriottica. Dopo l'Armistizio, non esitai ad unirmi alla lotta di liberazione. Non ero un militare, né avevo obblighi di leva, ma il caos e la presenza nazista a Roma mi spinsero a prendere posizione. Entrai a far parte dell'organizzazione clandestina "Stella Rossa" e mi distinse per il coraggio e la dedizione alle azioni di sabotaggio. Nonostante il pericolo imminente, continuai la mia lotta. Avvertito del rischio che correvo, fui costretto ad abbandonare Roma e mi rifugiai a Castel Cellesi Decidendomi di unirmi alla banda Colleoni sotto il comando del capitano Remo Saliola. Con altri compagni partigiani, pianificai un attacco dinamitardo ai depositi tedeschi di carburante e munizioni. Purtroppo, un traditore, Biagio Roddi, entrò nella preparazione del piano fingendo di fornirci il materiale per l’attentato Le SS tedesche giunsero a casa dello zio arrestandoci con l'accusa di possedere una bomba. Nonostante le percosse e le minacce, non rivelai nulla. Nel corso del processo che seguì, assunsi tutte le responsabilità per proteggere lo zio, che tornò a casa nonostante le sevizie subite. Durante il carcere a Regina Coeli, fui barbaramente torturato per far emergere informazioni sulla banda "Colleoni" e sulla formazione "Stella Rossa". Nonostante le sofferenze, tacetti e . Il tribunale tedesco mi condannò a sette anni di carcere duro. In attesa del trasferimento per scontare la pena, fui prelevato per essere destinato al martirio delle Fosse Ardeatine, dove i miei resti ora giacciono nel sacello n. 266. Oggi, una strada di Roma, sulla via Pontina, in località Tor de Cenci, porta il mio nome in memoria del mio sacrificio.